[ Interviste / Interviews ]

 

Intervista a GIUSEPPE VERTICCHIO/NIMH, a cura di Antonello Cresti.
Pubblicata sul libro “Solchi Sperimentali Italia”, Settembre 2015.

 

ANTONELLO: Cosa significa per te l'espressione "musica ambientale"?

GIUSEPPE: Ci sono effettivamente molte interpretazioni e molte “scuole di pensiero”, anche contrastanti, in merito a questa definizione e ai vari generi e sottogeneri in qualche modo ad essa “ascrivibili”. Per quanto mi riguarda credo che le “musica ambientale”, pur nella sue molteplici varianti e sfumature, sia caratterizzata da alcuni elementi imprescindibili e ricorrenti che ne “marcano” in qualche modo i “confini”…
Di base si può senz’altro dire che è una musica a basso impatto dinamico, priva di ritmo, dalle sonorità molto “morbide”, eteree, mai aggressive, e dai movimenti lenti, dilatati, talvolta ricorsivi e “circolari”, e questo a prescindere dal tipo di strumentazione usata (suoni acustici, sintetici, field recordings o quant’altro…).
Aggiungo ancora che, a seconda delle “intenzioni” dell’artista, e quindi del tipo di “funzione d’ascolto” che tale musica è preposta a svolgere, possiamo ancora suddividerla in due ampie categorie.
Una è quella della “musica ambientale” che debba svolgere ruolo prettamente “di sottofondo” e di “riempimento sonoro”, particolarmente “quieta”, “discreta” e intenzionalmente poco “incisiva”.
Altra è invece la musica d’ambiente che nasce comunque per un ascolto più attento e sostanzialmente “dedicato”, solitamente più “ambiziosa”, più articolata nella forma, più elaborata a livello compositivo, e di solito emotivamente più “toccante”.

ANTONELLO: Quale è il tuo rapporto con la tecnologia?

GIUSEPPE: Sono assolutamente “dipendente” dalla tecnologia, in quanto ampia parte della mia musica nasce e si sviluppa intorno a strumenti ed apparecchiature elettroniche, computer, software…
Al tempo stesso però non amo le “complicazioni” e la complessità che un uso molto spinto di apparecchiature tecnologiche porta inevitabilmente con sé, e per questo cerco comunque di limitarne al minimo indispensabile l’utilizzo.
E questo vale sia per quanto riguarda la mia attività musicale, sia, in senso più lato, per le mie “ordinarie” attività quotidiane.

ANTONELLO: Nei tuoi lavori compaiono sovente riferimenti alla musica etnica di origine extraeuropea. Quale è la tradizione musicale alla quale ti senti più affine?

GIUSEPPE: Mi riesce particolarmente difficile rispondere a questa domanda, sia perché, giocando un po’ con le parole, il mio approccio alla musica è decisamente poco “tradizionale”, sia perché oggettivamente non c’è una specifica “tradizione musicale” cui posso dire di sentirmi particolarmente affine, o che mi abbia “ispirato” in modo preponderante. Molte situazioni, scuole e “tradizioni musicali” mi hanno influenzato, stimolato, e fanno inevitabilmente parte del mio background musicale, ma nessuna di esse può essere “eletta” a mio modello “fondamentale”.
Mi “nutro” da sempre di musica ad ampio raggio… non solo sperimentazione, ambient ed elettronica, ma anche musica etnica, industriale, folk, acustica, pop, wave, shoegaze; apprezzo persino la più genuina e intramontabile musica New Age dei primi anni ’80, portata allora avanti da etichette ambiziose e memorabili coma la Windham Hill di William Ackerman, assolutamente in antitesi con quella musica (d’impronta molto più melensa, commerciale e “finto spirituale”…) che adesso viene ugualmente etichettata “New Age” …
Di certo invece posso menzionare almeno un paio di “tradizioni” musicali universalmente “acclamate” e dal mio opinabilissimo punto di vista piuttosto sovrastimate, che invece ho sempre trovato molto distanti dalla mia sensibilità e che, salvo rare eccezioni, non mi hanno mai attratto, influenzando quindi poco o nulla il mio lungo “percorso” musicale ad artistico.
E parlo in particolare della musica classica occidentale, e della musica negra afroamericana e suoi più o meno diretti “derivati”, quindi jazz, blues, soul, rhythm & blues, gospel, spiritual, fino ad includervi anche il rock & roll.

ANTONELLO: Come è nata la collaborazione con Amon per l'album Sator?

GIUSEPPE: In modo molto “naturale”… Ci eravamo conosciuti tempo prima, e un’estate ho invitato Andrea Marutti a trascorrere alcune settimane da me in Abruzzo, dove spesso vado in vacanza.
Quindi l’idea di portare degli strumenti per provare a registrare qualcosa insieme, giacché percorrevamo da anni sentieri musicali “attigui” e ci univa una collaudata amicizia e stima reciproca.
In quelle settimane abbiamo registrato e messo a punto molto materiale, e da quell’esperienza è nato non soltanto il menzionato “Sator” uscito a nome Amon/Nimh per la Eibon, ma anche il CD “Reflections on Black” uscito a nome “Hall of Mirrors” e pubblicato da Silentes.

ANTONELLO: Quale tra i tuoi lavori ritieni incapsuli meglio il senso della tua ricerca? Perchè?

GIUSEPPE: In senso generale direi senz’altro “The Unkept Secrets”, CD uscito nel 2008 per Silentes.
Questo CD infatti raccoglie al suo interno in modo molto articolato tutte le influenze, le sonorità, le tecniche, le “sfumature”, le soluzioni, che negli anni ho elaborato, sviluppato, e progressivamente “introdotto” all’interno della mia continua ricerca musicale e nei miei CD.
Per chi invece fosse particolarmente attratto da sonorità di tipo più “etnico”, credo che Krungthep Archives (CD uscito sempre per Silentes nel 2011), rappresenti nel modo più completo ed “evoluto” le mie “escursioni” in territori musicali di matrice pur sempre sperimentale, ma costruite intorno a sonorità decisamente meno “occidentali”.

 

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